Americano è chi nasce in America. Almeno fino a ieri.
La sentenza di venerdì della Corte Suprema rischia di dare via libera a Trump nel suo desiderio di cancellare il pilastro su cui è fondata la democrazia americana ovvero la cittadinanza per nascita.
"L'istituzione del nostro nuovo Governo sembrava essere l'ultimo grande esperimento per promuovere la felicità umana”, scriveva il primo presidente americano George Washington nel 1790. Io tutte le volte che leggo che l’America è un esperimento - parole dei padri fondatori - mi chiedo: ma allora lo sapevano che prima o poi sarebbe finito? Lo davano per scontato? E se sì, ci siamo davvero arrivati alla fine? Da venerdì me lo chiedo ancora di più per via della sentenza della Corte Suprema che mette a rischio il pilastro su cui si basa la stessa ragione di esistere degli Stati Uniti, quello che rende questo Paese quello che è ovvero la cittadinanza per nascita senza restrizioni. Detto altrimenti: chi nasce in America è americano. Non importa da dove vengono i tuoi genitori, chi sono o da quanto tempo sono in America. Se tu nasci qui, sei americano. Mica roba da poco.
A Donald Trump e ad altri repubblicani, questa cosa ovviamente non piace. Con la scusa della sicurezza nazionale e al grido di “i membri della gang, i criminali vengono qui a fare figli” lo scorso gennaio Trump ha firmato un decreto esecutivo per introdurre delle restrizioni al diritto alla cittadinanza per nascita, diritto che è contenuto nel Quattordicesimo Emendamento della Costituzione. Come moltissimi dei suoi decreti esecutivi, anche questo è stato sfidato con diverse cause intentate sia da associazioni sia da privati che si sono rivolti alle corti federali dei vari stati - Washington, Maryland e Massachusetts, ad esempio - chiedendo che fosse bloccato. Alcuni giudici lo hanno fatto, lo hanno bloccato. Trump ha fatto ricorso e si è arrivati alla Corte Suprema che venerdì doveva decidere non del diritto di nascita in sé, bensì della validità delle sentenze delle corti federali minori nel bloccare l’azione del Presidente.
Questo potere dei giudici federali di poter bloccare l’azione esecutiva del Presidente si chiama ingiunzione nazionale: quando un giudice della corte ad esempio del Maryland dichiara che l’ordine esecutivo di Trump che limita la cittadinanza per nascita è anticostituzionale, quell’ordinanza vale per tutto il Paese, non solo in Maryland. Proprio per questo l’ingiunzione nazionale è uno strumento giudiziario controverso ed è stata utilizzata sia dai repubblicani che dai democratici per bloccare le politiche del presidente del partito opposto. Siccome Trump ha emanato un numero esagerato di ordini esecutivi, con questa amministrazione le cause intentante e quindi le ingiunzioni nazionali emanate sono state tante. Ricorrendo alla Corte Suprema, Trump ha cercato di bloccare le ingiunzioni nazionali secondo la logica per cui le corti federali non possono bloccare il volere del Presidente. La sentenza di venerdì gli dà ragione: con uno schieramento di 6 a 3 cioè tutti i giudici conservatori da una parte e i tre giudici progressisti dall’altra, la Corte Suprema ha detto che i giudici federali hanno ecceduto nel loro potere e che quindi il Presidente può e deve fare quello che vuole. Sto semplificando, ma il senso è quello. E anche se la Corte Suprema non si è pronunciata sulla questione costituzionale stretta dello ius soli (pare lo farà a ottobre) il risultato è che comunque tra 30 giorni ai figli degli immigrati non regolarizzati che sono nati negli Stati Uniti non verrà garantita la cittadinanza nei 28 stati che non hanno contestato l’ordine esecutivo emanato da Trump. Una piccola grande rivoluzione. Ripeto: la Corte Suprema non ha detto se la cittadinanza per nascita senza restrizioni è davvero garantita dalla Costituzione oppure no, come sostengono i repubblicani. Su quello prima o poi si dovrà pronunciare. Pe ora la Corte Suprema ha solo detto che i giudici federali non hanno il potere di fermare il Presidente. Che è comunque tanto. E infatti ieri Trump ha commentato la sentenza scrivendo tutto maiuscolo “VITTORIA GIGANTESCA”.
L'adozione della cittadinanza per nascita negli Stati Uniti può essere fatta risalire alla ratifica del Quattordicesimo Emendamento della Costituzione nel 1868. Emanato dopo la fine della Guerra Civile, il Quattordicesimo Emendamento (tra le altre cose) garantiva determinati diritti agli afroamericani in tutti gli stati. In particolare, correggeva la sentenza Dred Scott del 1857 la quale stabiliva che la Costituzione degli Stati Uniti non estendeva la cittadinanza alle persone di origine africana. La prima frase del Quattordicesimo Emendamento, nota come Clausola di Cittadinanza, mirava a garantire la cittadinanza per nascita a chiunque fosse nato sul territorio statunitense, indipendentemente dalla razza. La clausola afferma: "Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla loro giurisdizione, sono cittadine degli Stati Uniti e dello stato in cui risiedono". Sebbene la lotta per l'uguaglianza dei diritti sia continuata ben dopo la ratifica del Quattordicesimo Emendamento, l'uso della cittadinanza per nascita attraverso la Clausola di Cittadinanza ha avuto lo scopo di garantire che tutti coloro che nascevano negli Stati Uniti, indipendentemente dalla razza, nascessero uguali. L'unico modo in cui gli Stati Uniti potrebbero eliminare lo ius soli sarebbe ratificando un nuovo emendamento alla Costituzione o attraverso un allontanamento radicale da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti rispetto al precedente secolare su come è sempre stato interpretato il Quattordicesimo Emendamento, che è la strada scelta dai repubblicani. La formula "soggette alla giurisdizione" che è contenuta nella Clausola di Cittadinanza è la maniglia a cui si attaccano quelli che vogliono limitare la cittadinanza per nascita. Chi è infatti soggetto alla giurisdizione degli Stati Uniti? La sentenza del 1898 nel caso Stati Uniti vs Wong Kim Ark stabilisce il precedente esplicito secondo cui chiunque sia nato negli Stati Uniti, indipendentemente dallo status di immigrazione dei genitori, è cittadino. Wong Kim Ark era nato negli Stati Uniti da genitori cinesi. Quando tentò di tornare negli Stati Uniti dopo una visita temporanea in Cina nel 1890, il governo statunitense gli impedì di rientrare ai sensi del Chinese Exclusion Act, una legge che aveva dichiarato alcuni gruppi razziali permanentemente ineleggibili alla cittadinanza. Con una decisione a maggioranza di 6 voti contro 2, la Corte Suprema di allora stabilì invece che, poiché Ark era nato negli Stati Uniti, era effettivamente un cittadino statunitense e che il Chinese Exclusion Act non poteva sostituire il mandato del Quattordicesimo Emendamento. Negli anni successivi, la Corte Suprema ha ribadito che gli immigrati irregolari e i loro figli sono "soggetti alla giurisdizione" degli Stati Uniti. Nel caso Plyler vs Doe del 1982, la Corte Suprema ha affermato che non esiste "alcuna distinzione plausibile" tra immigrati regolari e irregolari in termini di giurisdizione, poiché entrambi sono "soggetti all'intera gamma di obblighi imposti dalle leggi civili e penali del luogo".
L’attacco di Trump al Quattordicesimo Emendamento della Costituzione non è solo una noiosa questione legale, non è un tecnicismo costituzionale. È una questione storica e morale, oltre che politica. È un attacco alla Costituzione, quella che Trump ha giurato di difendere con la mano sulla Bibbia quando è stato insediato. Se si incomincia a trattarla come carta straccia, dove si va a finire? Quale è il limite? Carlo Pizzati su La Stampa ha scritto: “Oggi sono i figli degli immigrati a perdere il diritto costituzionale dello ius soli, ma domani? Magari chi critica la linea governativa. Se si accetta una prima mancata tutela della Costituzione, soprattutto in quell’America che si è sempre vantata dell’incrollabile sistema di controlli incrociati contro gli abusi di potere, ecco che si mette in moto una macchina inarrestabile. L’autocrazia non viene annunciata sui social o in tv da un giorno all’altro. Ci si scivola dentro, un’eccezione alla Costituzione alla volta, una sentenza alla volta”. La famosa frase che Benjamin Franklin avrebbe pronunciato nel 1787, a conclusione della convenzione di Philadelphia durante la quale fu stilata la Costituzione, sembra più attuale che mai: “A republic, if you can keep it”.
PS Un mese fa, durante un’intervista a Meet the Press, parlando degli immigrati mandati nella prigione in El Salvador, a Trump è stato ricordato che in America il giusto processo deve essere garantito a chiunque, che è scritto nella Costituzione. A domanda se non crede di dover far valere la Costituzione, Trump ha risposto: “Non lo so”. (video sopra)
davvero pare un enorme edificio che scricchiolano, gli USA.
Più di uno ha sottolineato il fatto che da sempre il Presidente ha poteri notevolissimi
e finora quasi tutti lo hanno esercitato sapendosi all'interno di un sistema di cui condividevano (quasi sempre) le fondamenta
ma quando arriva uno come Trump, quel potere notevolissimo diventa spaventoso
(come stiamo vedendo, e non da poco)