Leaving New York, never easy
La domanda più gettonata della settimana: ma quindi torni in Italia?
Trump ha vinto. No, anzi: ha stravinto. Del perché e per come si parlerà per decenni. Una vittoria così non è mai figlia di un solo motivo, ma è come una tempesta perfetta che si è abbattuta sul partito democratico e che è fatta di tanti fattori e diversi errori. Nella diretta che io e Dan abbiamo fatto e che trovate su Instagram abbiamo provato ad analizzarli a caldo e molte delle cose che abbiamo detto sono state confermate da analisi ed editoriali. Innanzitutto l’economia che però attenzione: dire economia non significa dire che l’economia andasse male sotto Biden, tutt’altro, per i macro valori l’economia americana va benissimo. Significa che la percezione, il vissuto che i cittadini avevano - e che ancora hanno - era che andasse male a causa dei prezzi troppo alti dovuti all’inflazione (che intanto si è bloccata). L’inflazione non era colpa di Biden e la sua amministrazione - contrariamente a quanto dice ora Bernie Sanders - è quella che ha fatto di più per aiutare la working class e la classe media: assegni per le famiglie con figli; azzeramento del debito scolastico; riduzione e blocco del prezzo dell’insulina. Il problema è che Biden e i suoi hanno dato troppo per scontate troppe cose tra cui che i cittadini sapessero di tutti i provvedimenti del governo. Un po’ per snobismo un po’ per errore di valutazione hanno fallito nel comunicare tutto quello che di buono avevano fatto, lasciando la narrazione completamente in mano alla destra per cui l’economia andava malissimo e la gente era alla fame. La mancanza di comunicazione deriva però dal problema Biden stesso: già durante la campagna del 2020 e ancora di più durante la sua presidenza, il suo team lo ha sempre tenuto lontano dai giornalisti e dalle telecamere e da qualsiasi occasione in cui potesse esprimersi liberamente. La ragione è stata evidente durante il famoso dibattito e anche negli ultimi giorni della campagna di Harris, quando ha chiamato spazzatura i sostenitori di Trump: Biden che già da giovane era incline all’impappinarsi e alle gaffe in questi ultimi anni è diventato ancora peggio, il linguaggio si è rallentato ancora di più, i discorsi si sono fatti più confusi. Il cambio all’ultimo con Harris ha fornito su un piatto d’argento alla destra trumpiana l’argomentazione che il partito democratico era tutto colluso in un enorme schema che per anni ha nascosto agli americani la vera condizione di Biden, congiura alla quale aveva per forza di cose partecipato anche Kamala Harris, essendo la sua vice. La storica Claire Bond Potter, autrice del libro “Political Junkies: From Talk Radio to Twitter, How Alternative Media Hooked Us on Politics and Broke Our Democracy” mi ha detto una cosa giustissima ovvero che Obama e Clinton sarebbero andati in mezzo alla gente, nelle università, sui posti di lavoro, nelle piazze, ovunque per parlare agli elettori, una cosa che Biden non ha potuto fare per colpa della sua età e perché un uomo di 80 e passa anni difficilmente riesce a mettersi in connessione con l’elettorato giovane. “Io ho 66 anni e sono cresciuta con Biden”, mi ha detto Claire. “Ma non si può pensare che dei venticinquenni abbiano per lui il rispetto che possono avere gli elettori più anziani”. La seconda cosa che mi ha detto Claire è che gli americani soprattutto più giovani fanno fatica a collegare le azioni del governo con l’effetto che hanno sulla loro vita quotidiana. “Ci sono generazioni che pensavano che il New Deal di Roosevelt avesse salvato le loro famiglie. La mia è una di queste. I miei nonni erano in bancarotta quando arrivarono in Usa dal Canada. Mio nonno fino alla sua morte ha amato Roosevelt, perché sapeva che ciò che aveva fatto aveva effettivamente salvato la sua famiglia. Oggi la gente non sa queste cose, non hanno i mezzi per comprendere il governo, non insegniamo l'educazione civica”.
L’altra questione riguarda la famosa guerra culturale e il posizionamento che il partito democratico ha avuto negli ultimi anni su questioni definite “woke” che tanto sono care alla parte più a sinistra del partito stesso, ma che la maggioranza degli americani - minoranze etniche comprese - ormai trova assurde, fuori dalla realtà, ridicole e respingenti, non rilevanti. Intervistando un altro analista, il repubblicano ma non trumpiano Robert A George, dei motivi della sconfitta dei democratici mi ha citato il video elettorale che i repubblicani hanno mandato negli stati in bilico ma anche nello stato di New York, quello in cui, tagliata, fanno vedere una vecchia intervista in cui Kamala Harris era favorevole che il governo si facesse carico delle spese per la transazione di genere di detenuti e immigrati irregolari. “C’è una questione culturale più ampia che coinvolge i democratici progressisti e che è stata respinta”, mi ha detto George. “I democratici hanno probabilmente sottovalutato quanto quel video li abbia danneggiati, anche perché sull’argomento Harris è stata sempre sulla difensiva. Lo slogan di quel video era: lei è con loro, Trump è con voi. Geniale, perché quel “loro” poteva essere interpretato in tanti modi, loro come elite, loro come gli immigrati, loro come chi vuole cambiare il sesso ai ragazzini”. Del video se ne parla qui, dove si spiega l’enorme sforzo economico che i repubblicani hanno fatto nell’ultima settimana della campagna proprio sul tema delle persone trans. Sull’argomento ci è tornato a suo modo - ovvero andandoci giù pesante - anche Bill Mahler con questo monologo. Piaccia o non piaccia, certe cose che dice - anche se le dice in modo forse un po’ violento - sono valide, ahimè. A onore del vero bisogna però anche ricordare questo: Kamala Harris non ha fatto campagna sulla guerra culturale, e giustamente. Sono stati i repubblicani che astutamente hanno riportato l’attenzione su questo. Harris voleva vincere e ha condotto un’ottima campagna molto mirata agli stati chiave parlando di economia e di classe media. Quello che ha pagato è stato la generale percezione del partito democratico come del partito di gente più interessata a discutere su che bagni devono usare le persone trans piuttosto che parlare del prezzo delle uova.
Quindi Trump ha vinto. Anzi, ha stravinto. E ora? Torni in Italia? Un po’ come battuta un po’ no, in tanti me lo hanno scritto in questi giorni su Instagram. La risposta è ovviamente no, non per ora. Se e quando decideremo di tornare in Italia (o in Europa) lo faremo sulla base di decisioni ponderate a lungo, non sulla rabbia o sulla delusione del momento, mi sembra persino cretino sottolinealo, così come mi sembra ovvio che non esiste il paese perfetto o la società perfetta e che se uno si dovesse trasferire tutte le volte che succede qualcosa di spiacevole allora sarebbe sempre con i bagagli in mano. Il che non significa che non ci sia preoccupazione, quella c’è eccome. Come spiegavo nella newsletter precedente i danni che un Robert Kennedy Jr - possibile responsabile della sanità nell’amministrazione Trump - può fare sono da non dormirci la notte. Così come è da non dormirci la notte l’ipotesi che Trump faccia crollare l’economia, porti l’inflazione alle stelle, provochi una crisi come quella del 2008 o peggio. Due sere fa, su thread, sono finita in un buco nero di gente che discuteva delle operazioni finanziarie che stava già mettendo in pratica nella previsione che qui salti tutto. Ovviamente non ci ho dormito la notte e al mattino ho stressato Dan fino a fargli promettere che avrebbe parlato con il suo consulente finanziario per capire cosa è meglio fare adesso, visto che tutti i nostri soldi sono investiti. Devo ammettere però che rispetto al 2016 io come tanti altri abbiamo reagito meglio. Un po’ perché rispetto al 2016 la vittoria di Trump è stata meno improvvisa, un po’ perché forse, inconsciamente, siccome abbiamo già vissuto quei quattro anni, sappiamo che sopravviveremo anche ai prossimi quattro, nonostante l’impresentabilità di certi nomi della sua nuova amministrazione. Poi, l’altro ieri, mi è capitata tra le mani questa foto qui sotto: è la mappa elettorale delle elezioni presidenziali del 1984 tra il candidato repubblicano Ronald Reagan e quello democratico Walter Mondale. È piuttosto chiara: Mondale vinse solo il Minnesota (il suo stato) e il District of Columbia. Una distesa rossa con un solo quadratino blu. Reagan vinse 525 grandi elettori e vinse il voto popolare con più di 54 milioni di voti contro i 37 e mezzo di Mondale. Otto anni dopo, un giovanissimo Bill Clinton vincerà 370 grandi elettori e stati del sud tenacemente conservatori come Louisiana, Kentucky e Tennessee. Ovviamente sono tempi diversi, ovviamente non si possono fare paragoni, l’affluenza all’epoca era molto bassa, insomma sono davvero mondi non paragonabili, ma quello che penso guadando queste mappe elettorali ormai vintage è che tutto può cambiare e che se c’è un paese dove le cose cambiano è appunto questo. Non solo, le cose qui possono cambiare - in bene ma anche in male, per carità - anche molto in fretta. L’altro motivo per cui rispetto al 2016 c’è meno disperazione in giro è anche perché nel 2016 l’aspettativa era di avere potenzialmente otto anni di Trump, mentre oggi sappiamo che possono essere solo quattro. Sappiamo che storicamente i presidenti realizzano più nel primo mandato che nel secondo; sappiamo che la popolarità di chi è al potere è destinata a scendere, non a salire; sappiamo che Trump è anziano; sappiamo che esiste il rischio che faccia cose così impopolari che i repubblicani ne pagheranno poi le conseguenze in termini elettorali perché sappiamo che nel 2026 ci saranno le elezioni di metà mandato e che i democratici potranno riprendersi la Camera, ammesso che imparino dai proprio errori. Nate Silver, lo statistico famoso per il suo modello di previsione delle elezioni, ha scritto che in realtà questo momento politico assomiglia al 2004 quando Bush fu eletto al suo secondo mandato vincendo sia il voto popolare che quelle elettorale contro John Kerry, ma che il secondo mandato di Bush fu così disastroso e lui così impopolare che aprì le porte all’arrivo di Barack Obama nel 2008. Come dire che per i democratici questa sconfitta potrebbe essere un’occasione e a me viene voglia di rimanere anche solo per vedere che cosa si inventeranno. E se non si inventano nulla, se tutto va male… noi comunque abbiamo New York.
Bellissimo pezzo, grazie come sempre del tuo punto di vista. L'ultima parte più ottimista mi trova molto d'accordo.
È sempre un piacere leggerla!